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Giovanni Doretto il pittore dietro al Manifesto

 Nel 1950 alla domanda: “Chi ha fatto il manifesto della Sagra dei Osei ?” avremmo avuto un dialogo simile a questo:

“Lo ha fatto coso lì, il pittore…”  

"Ma 'coso' chi ?"

“Ma si coso dai!… ”

Ecco a voi in arte “coso”, per chi lo conosceva era Giovanni Doretto, nato a Pordenone il 24 febbraio 1920 e morto il 29 gennaio 1998, un umile pittore e vetrinista di Pordenone che arriverà ad essere un punto di riferimento artistico della città e della provincia. Voglio qui raccontarvi la vita di questo Artista che ha realizzato il nostro primo manifesto pittorico per la nostra millenaria sagra, la sua civetta appena abbozzata su sfondo nero che resta nei cuori dei nostri cittadini e che fu usata nei successivi 23 anni.

La sua vita è stata ricca di riconoscimenti e premi che ha sempre accettato con umiltà e semplicità, lo testimonia il fatto che quando realizzava un opera che lui stesso considerava di poca importanza si firmava come “Coso”, un appellativo si umile ma anche ricco di autoironia.


Nella vita ha vissuto numerose belle avventure, ma anche terribili. Doretto è stato un autodidatta, la pittura era una dote innata per lui che affinò con il tempo e l’esperienza, ma anche con l’aiuto dell’amico Giorgio Bordini un accademico e da numerosi artisti del pordenonese con cui si dilettava a discutere di tecniche e soluzioni pittoriche. La sua vita inizia negli anni 20 e ben presto si troverà arruolato nel corpo degli Aviatori, il corpo dei belli! Così per 5 anni va in guerra dove dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 si troverà carcerato dall’esercito tedesco e spedito nei campi di concentramento prima a Brema e poi a Strasburgo. Fu liberato dai francesi e portato a Parigi dove a piedi e con passaggi di fortuna in 2 mesi tornò nella sua città; la guerra lo sconvolse, lo sconvolsero i ricordi del carro bestiame che lo portarono al campo di concentramento di Brema dove restò una notte sotto i bombardamenti, ma la sua più grande gioia fu il fatto che in tutta la guerra lui non dovette mai uccidere nessuno. Nella prigionia della follia Nazista e Fascista si salvò solo grazie all’arte, avrebbe dovuto costruire munizioni, cosa che lo avrebbero di sicuro o fatto morire sotto un attacco alleato o per le esalazioni dei fumi tossici della fabbrica, ma ai Nazisti serviva un “Maler” un pittore che dipingesse i numeri sulle baracche dei campi e così la sua arte, il suo saper fare un mestiere gli salvò la vita. Nel 1950 si sposò e lavorando come commesso realizzando gli allestimenti della vetrina del negozio in cui lavorava, il suo senso artistico e la sua passione gli valsero un primo posto in un concorso nazionale come vetrinista e un articolo su Time. Dopo quei successi, andò a lavorare a Venezia da Coin come vetrinista, il suo lavoro era così apprezzato che lo mandavano in ogni negozio tra Treviso, Venezia, Padova e Trieste per fare gli allestimenti, arrivando a offrirgli una abitazione sul Canal Grande. Intanto la moglie si aprì un negozio di cappelli e tessuti nel centro di Pordenone e acconciava le signore con capi e cappelli secondo la moda dell’epoca. Doretto, avendo i genitori che necessitavano di cure e attenzioni dovette abbandonare il suo lavoro da Coin e ritornare a Pordenone per dedicarsi con la moglie. Nella sua città ormai era un punto di riferimento, considerato un uomo di buon gusto e artista della provincia, non si espose mai però, rifiutava ogni genere di clientelismo e non si piegò mai alle logiche di mercato dell’arte, chi voleva un suo quadro doveva andare nel suo negozio e parlare con lui. Si potevano ammirare le sue opere dalla sua vetrina, la vetrina era la sua vera mostra, aperta a tutti e fruibile da tutti in modo che chiunque potesse gustare l’arte. L’arte gli salvò la vita e fu la sua vita, le persone lo volevano, il mondo lo voleva, ma lì “coso” era schivo e restò vicino alla sua famiglia. Restò nel suo negozio a dipingere nel retro bottega, la figlia Daniela, fonte di questo articolo, lo ricordo così: “Dipingeva con la sua giacca blu e i pantaloni grigi, una mano in tasca nel retro della sua bottega tra un cliente e un altro”. Ecco a voi la storia di questo nostro Artista che ha saputo cogliere con estrema semplicità e potenza la nostra sagra. Ha realizzato uno dei manifesti più iconici e che a mio parere racchiude ironicamente un significato molto profondo. L’Artista infatti su uno sfondo scuro abbozza una civetta, pochi tratti semplici e lineari, ma descrive con dovizia di particolari il suo trespolo e la sua zampa incatenata. Quasi a farci riflettere sulla condizione dell’animale che alla fine non appare realmente sul manifesto ma appare la sua prigionia; una prigionia oscura e pesante come oscuro è lo sfondo del manifesto. Strano è di sicuro il fatto che un artista che del colore ha fatto la sua vita abbia scelto il nero per rappresentare la natura, ma non appare più così strano se si riflette sulla sua vita e sulla esperienza del campo di concentramento. Forse dovremmo chiederci guardando il suo lavoro che no sia giunto il tempo di riflettere e di abbandonare la gabbia e concentrarsi sulla bellezza che vi è dentro ? Sui colori della natura e la vita che ci circonda? Di sicuro la vita di Giovanni Doretto nella sua umiltà ci potrà essere di ispirazione. Da un oscura prigionia che può essere generata dall’odio, solo l’arte, la bellezza, la passione e gli affetti ci salveranno.

 

Voglio ringrazia la figlia Daniela Doretto per avermi concesso la possibilità di farmi raccontare la vita di suo padre, di “coso” lì l’artista…

 

a cura di

 Pasquale Naclerio